Devianza

Per devianza si intende ogni atto o comportamento, anche solo verbale, di una persona o di un gruppo chi viola le norme di una collettività e che di conseguenza va incontro ad una qualche forma di sanzione.

Si considerano devianti quei comportamenti che non sono consoni nella società  In particolar modo, in riferimento ai ragazzi,  questi vengono definiti  “ragazzi difficili”, “ragazzi fuori”, adolescenti trasgressivi, adolescenti devianti tutti accomunati dall’etichetta “a rischio”  Si pensa al rischio quale attribuzione insita già nella figura dell’adolescente e la si estende al contesto di appartenenza, al suo ambiente culturale e sociale  dalla famiglia al gruppo dei pari, dal quartiere, al territorio producendo pericolosi effetti di eticchettamento che a loro volta, conducono al rinforzo sociale di una identità negativa.

La presenza di alcune forme di devianza  nelle famiglie benestanti, è probabilmente espressione di un altro tipo di povertà, quella relazionale. Il gruppo dei pari è una forma di aggregazione sociale spontanea tipica dell’età adolescenziale e giovanile che riveste una grande importanza nel processo di crescita degli individui. Nel momento in cui gli adolescenti avvertono il giusto  bisogno di prendere le distanze dalla famiglia e dalla scuola e per cercare una propria dimensione individuale  più autonoma, il gruppo offre accoglienza , protezione e riconoscimento per la nuova identità che essi vanno formando. Nell’approccio che qui si utilizza (cfr. G. De Leo De Leo 1998) della devianza si vuole mettere in risalto la sua natura dinamica di processo sociale comunicativo, in cui i significati si creano attraverso l’interazione tra gli individui, e si prone quindi un lavoro sul minore e la sua famiglia che utilizzano il “momento deviante” come opportunità di dialogo e crescita.

Come leggere un disturbo d’ansia. Origine, mantenimento ed intervento.

L’ansia è un emozione come la paura, la rabbia, la gioia e che come le altre ha un ruolo importante nella vita. Nel mio lavoro clinico mi capita spesso di ricevere richieste di aiuto e di intervento per affrontare situazioni legate all’ansia che provoca nelle persone uno stato di disagio profondo ed interferente in grado di compromettere fortemente la qualità della loro vita.

Chi vive uno stato di ansia è generalmente impaurito, è spesso teso e vive male anche il più piccolo cambiamento quotidiano, gestisce male le novità immaginando sempre un esito negativo legato alla situazione ha inoltre l’idea che vi sia sempre un pericolo imprecisato che sta per sopraggiungere.

Un disturbo d’ansia si può manifestare in molti diversi modi: dalla paura di guidare, alle fobie, all’impossibilità di poter lasciare casa per la paura di dover continuamente andare in bagno, all’idea che uscendo di casa potrebbe sopraggiungere un attacco improvviso ed ingestibile di ansia paralizzante, per tutti questi motivi la persona potrebbe arrivare ad adottare nel tempo uno stile di vita sempre di più ritirato e basato sull’evitamento continuo di situazioni che creano ed alimentano l’ansia.

Il corpo di chi soffre di ansia è sempre in uno stato di tensione pronto ad affrontare un’emergenza imminente – reale o immaginata -, ciò determina la comparsa di numerosi sintomi fisici tra i quali l’aumento della frequenza cardiaca, l’aumento della sudorazione, tensione muscolare, tremore e pallore in viso.

L’ansia è un emozione come la paura, la rabbia, la gioia e che come le altre ha un ruolo importante nella vita: ha una speciale funzione adattiva per l’individuo ed è legata alla sopravvivenza stessa della persona, in molti casi però la si associa solo ed esclusivamente all’aspetto di paura e terrore considerandone, in questo modo, solo il mero aspetto negativo e disfunzionale.

Diversamente dall’ansia breve e legata ad un singolo evento come un esame o un primo appuntamento, i disturbi d’ansia patologici si protraggono per almeno 6 mesi con una naturale tendenza al peggioramento se non trattati. La prima manifestazione clinica importante solitamente è intorno alla tarda adolescenza prima età adulta e il singolo episodio non necessariamente evolve automaticamente nel disturbo più grande di attacco di panico.

Il lavoro psicoterapeutico che faccio con chi soffre di disturbi d’ansia è nella direzione della ridefinizione dell’ansia come campanello di allarme da leggere sia come segnale specifico di qualcosa che non va e che non è più funzionale ma anche come qualcosa da decifrare, come un messaggio ricco di significati da comprendere all’interno della storia personale e familiare della persona sintomatica. Considero quindi l’ansia come uno stato psichico particolare, caratterizzato da sensazioni di preoccupazione e paura, correlato da molteplici sintomi fisici tali da far pensare ad una vera e propria patologia di natura organica quasi come un attacco cardiaco, il cui ruolo e la cui funzione nella vita della persona sintomatica può essere compreso e connotato di significati relazionali all’interno di una efficace psicoterapia.

Quello che accade al corpo negli attacchi di panico è molto caratteristico e comprende: accelerazione del battito cardiaco, una forte sudorazione, svenimento, vertigini, vampate di calore, nausea formicolio alle mani e sensazione di soffocamento. Chi soffre di Attacchi di Panico vive il momento successivo ad un attacco nell’attesa che il prossimo sopraggiunga alimentando lo stato di  ansia anticipatoria tra un episodio e l’altro.

Se la paura è la risposta emotiva ad una minaccia, l’ansia è invece l’anticipazione di una minaccia futura e nei disturbi d’ansia questi due stati spesso si sovrappongono e al tempo stesso hanno però delle caratteristiche differenti: la paura è associata a picchi di attivazione del sistema nervoso autonomo, quello addetto cioè al controllo delle funzioni vegetative non soggette al controllo volontario della persona necessario alla lotta e fuga, l’ansia è invece più spesso associata alla tensione muscolare, alla vigilanza e alla preparazione al pericolo futuro nonché a comportamenti prudenti e di evitamento.

I disturbi di ansia sono molteplici e si differenziano tra loro sia per la tipologia degli oggetti cui sono associati che per le situazioni che provocano paura, ansia o comportamenti di evitamento ma anche per l’ideazione cognitiva associata.

Molti disturbi d’ansia si sviluppano in età infantile e tendono a persistere se non curati, un disturbo caratteristico della fanciullezza è il disturbo di ansia da separazione che riguarda la separazione dalle figure di attacamento – i genitori – ed ha un livello di gravità inappropriato rispetto alla situazione e al livello di sviluppo, nonostante questo sia un disturbo sia tipico della fanciullezza potrebbe persistere e manifestarsi anche fino all’età adulta.

Il mutismo selettivo, la fobia specifica, l’ansia sociale, il disturbo ossessivo compulsivo, il disturbo post traumatico da stress, il disturbo da attacco di panico sono solo alcuni dei disturbi d’ansia.

L’ansia è un sintomo e come tale è da considerarsi: come un messaggero, portatore di significati da decodificare e leggere all’interno della storia emotiva e relazionale della persona. I sintomi in generale, quelli ansiosi in particolare, possono essere considerati anche come elementi protettivi capaci di aiutare la persona a esporsi meno, a proteggersi in tutte quelle situazioni della vita in cui ci si può non sentire sufficientemente in grado di affrontare una fase particolare del ciclo vitale, in questa ottica si colloca allora efficacemente un percorso di psicoterapia, finalizzato alla comprensione del momento del ciclo vitale, allo scioglimento dei nodi emotivi che hanno determinato la situazione di ansia e di empasse della crescita e dello sviluppo della persona.

Come riconoscere e cosa fare con un bambino oppositivo-provocatorio

Che cos’è? Il Disturbo Oppositivo Provocatorio (DOP) è una patologia neuropsichiatrica dell’età evolutiva, caratterizzata da una modalità ricorrente di comportamento negativistico, ostile e di sfida, che però non arriva a violare le norme sociali né diritti altrui.

La diagnosi in età evolutiva non è sempre facile, in quanto, il soggetto attraversa un periodo d’instabilità, in cui affronta cambiamenti repentini che lo fanno crescere mentalmente e fisicamente. Spesso tra normalità e patologia c’è un confine molto sottile, che diventa quasi invisibile quando si analizzano dei bambini. Infatti, nel corso della prima infanzia spesso i bambini diventano davvero incontrollabili, corrono da una parte all’altra, rompono tutto per la curiosità di scoprire come sono fatte le cose all’interno. L’aggressività e l’ostilità sono mezzi attraverso i quali si esprime l’egoismo infantile e servono al bambino per imparare a distinguere il sé dagli altri, a capire le regole sociali ed a sperimentare le prime forme d’adattamento.

Possono essere scontrosi e capricciosi ma nei bambini che manifestano comportamenti oppostivo provocatori queste caratteristiche si presentano amplificate tanto da arrivare a compromettere, in maniera significativa, il loro inserimento sociale.

Come si manifestano i bambini con tale disturbo?

Il bambino può presentare spesso collera, sfida o rifiuto di rispettare le regole proposte dagli adulti, spesso litiga con gli adulti e irrita deliberatamente le persone, accusa gli altri per i propri errori o il proprio cattivo comportamento. È spesso arrabbiato, rancoroso, dispettoso e vendicativo. Già nell’età prescolare, può avere temperamenti problematici ma è intorno ai 3 – 4 anni, con l’ingresso a scuola che il problema diverrà sempre più evidente. Questi bambini, infatti, mostrano una totale incapacità di adattamento alle regole scolastiche, influenzando anche l’attività didattica dell’intera classe. Possono presentare scarsa autostima, labilità d’umore, scarsa tolleranza alla frustrazione, conflitti con genitori, insegnanti e coetanei.

Prendersene cura è molto difficile, sono causa di stanchezza, di scoraggiamento e di frustrazione per chiunque cerchi di instaurare con loro un rapporto.

Come aiutarli ad uscire da questo stato di disagio?

La parola d’ordine, di un buon intervento educativo e psicologico, dovrà essere “comprensione”.

Sono bambini che non vanno curati, né cambiati, ma prima di tutto capiti.

Con i loro comportamenti sembrano volerci allontanare, ma se ce ne andiamo soffrono di solitudine.

Forse sono ostili perché cercano di difendersi, a causa di traumi che li hanno portati a diffidare degli altri, oppure vogliono attirare l’attenzione, perché hanno bisogno di comunicare i loro problemi e non conoscono altro canale che l’aggressività.

Il soggetto affetto dal DOP non vive una vita felice e serena, l’immagine che ha di sé è molto svalutante, si considera un incapace, indegno dell’amore altrui e crede che nessuno mai gli potrà essere amico, si sente continuamente rifiutato, anche se sa di essere lui stesso la causa del suo isolamento. Il rapporto che questi soggetti hanno con i loro parenti è molto complesso, alla lunga, tende a sgretolare l’unità familiare.

Sono gli stessi genitori ad attribuire ai loro figli delle etichette, a definirli “insopportabili”, “aggressivi”, “terribili”. Queste espressioni che possono essere dettate da un momento di collera, se ripetute più e più volte, vengono interiorizzate dal bambino.

Se qualcuno gli si avvicina per instaurare un rapporto, anziché esserne felice, si mostra diffidente e reagisce con il suo repertorio di comportamenti ostili, come a voler mettere alla prova le intenzioni del suo interlocutore: “Mi vuoi bene anche se ti dimostro che non valgo niente, anche se ti faccio vedere che mi sono preso gioco di te? Mi vuoi bene anche se io stesso sono sicuro di essere un buono a nulla, e sono certo che nessuno mi potrà mai amare?”.

Diversi sono i metodi, utilizzabili sia in un contesto scolastico che familiare, che permettono di “punire” il bambino in maniera intelligente, evitando cioè di fare ricorso a castighi rigidi e rimproveri umilianti, che potrebbero produrre effetti indesiderati. Per esempio: preferire sempre la perdita di un privilegio (es. uscire o guardare la tv) alla punizione (es. fare qualcosa di spiacevole); se si decide di punire NON usare mai la violenza fisica; ricordarsi di dare il “buon esempio”.

La punizione non dovrà servire a formulare giudizi, ma dovrà limitarsi a descrivere il comportamento indesiderato in maniera obiettiva. Al bambino verranno spiegate le motivazioni che rendono sbagliata tale condotta, verranno suggerite modalità comportamentali alternative e verranno indicati i vantaggi derivanti dalla loro messa in atto.

Inoltre, è molto utile concentrare l’attenzione sui genitori e sulle loro pratiche educative, perché possono aver giocato un ruolo importante nello sviluppo e nel mantenimento del disagio. Si deve evitare sempre di dare giudizi pessimistici, perché possono generare stati emotivi negativi nei genitori. Invece è importante sostenerli per trovare le strategie giuste affinché si possa modificare l’attuale situazione.

Dipendenza da Internet, videogames e cellulari: capire ed intervenire.

Nell’epoca della comunicazione mediata dalla tecnica ci si interroga ancora sulle nuove dipendenze che caratterizzano gli adolescenti di oggi, dipendenze che sono in aumento, destando un notevole allarme sociale. E’ sotto gli occhi di tutti come lo sviluppo esponenziale delle nuove tecnologie abbia notevolmente contribuito a trasformare le forme di comunicazione all’interno della società e a modificare stili di vita e modelli comportamentali in tempo rapido.

Si chiamano “web kids” e rappresentano il popolo degli under 18 che naviga spedito su internet, chatta on-line con la stessa naturalezza con cui le precedenti generazioni usavano il telefono, privilegia l’e-mail  e gli sms come principale mezzo di comunicazione. Il web ha cambiato non solo il modo di comunicare ma anche il linguaggio. Come il web ha cambiato il modo di socializzare, gli sms hanno cambiato la comunicazione degli affetti tra i giovani. Inoltre, il linguaggio privilegiato è quello di sintesi, che da una parte, va dritto al sodo, dando vita ad un discorso lineare e concreto, dall’altra, c’è il rischio che si taglino le gambe ai sentimenti ed alle emozioni.

Quali sono i bisogni che la rete soddisfa?

•             Sicurezza: i rapporti con gli amici nel gruppo permettono di trovare alleati nei confronti degli adulti e delle loro ingerenze;

•             Socializzazione: il gruppo offre la possibilità di non sentirsi soli e di trovare qualcuno con cui confidarsi in un clima non valutativo e accettante.

•             Spontaneità: il gruppo fornisce uno spazio in cui riesce ad essere se stesso anche nei suoi aspetti negativi, poiché l’altro vive la stessa condizione di disagio.

•             Specchio: il gruppo permette di vedere le proprie reazioni nelle azioni degli altri. Il comportamento dell’altro è un modello con il quale confrontarsi.

•             Selettività: il sentirsi appartenente ad un gruppo permette di differenziarsi rispetto sia agli altri coetanei sia agli adulti.

•             Transazione: il gruppo permette un graduale passaggio dallo stato di subordinazione verso gli adulti alla parità.

Internet riflette la necessità dei giovani di uscire dai vincoli del gruppo tradizionale per approdare ad una sorta di cyber-comitiva che può riunire centinaia di elementi di ambo i sessi e di tutte le provenienze socio-culturali e geografiche. I social networks inoltre, danno voce a tendenze ambivalenti della personalità, l’immagine di sé comprende aspetti realistici e idealizzati che convivono senza conflitto; si oscilla tra realtà e finzione tra le diverse modalità di pensiero come in un gioco che consente la simulazione.

Quali sono i rischi che si corrono con un utilizzo non controllato di internet e dei videogiochi?

A farne le spese è sia la scuola che il gioco tradizionale. Attualmente quest’ultimo, è stato quasi del tutto sostituito dal videogioco, che lascia poco spazio alla creatività individuale, comportando anche la rottura della rete di relazioni interpersonali, in quanto è una forma di gioco consumata in solitudine, che implica una sfida tra l’individuo e la macchina. I bambini e i ragazzi possono incorrere in difficoltà scolastiche dovute al poco tempo dedicato allo studio e alla scarsa concentrazione, perché distratti dal desiderio di giocare.

Quando si diventa dipendenti?

Ci sono delle situazioni in cui si è più predisposti a sviluppare tale dipendenza. Quando si attraversa un momento di difficoltà, il computer, i video-games, i cellulari riducono notevolmente lo stato di disagio, l’ansia e la solitudine, offrendo opportunità di svago e alleggerimento della mente. Altri elementi predittivi individuali, possono essere impulsività, ricerca di sensazioni (disinibizione e sensibilità alla noia)e bassa stabilità emotiva. Infine, ma non meno importante, inadeguato sostegno e monitoraggio da parte dei genitori, scarsa qualità relazionale con i pari e isolamento sociale.

Cosa possono provocare le nuove dipendenze?

Le dipendenze da prodotti tecnologici condividono con quella da sostanze alcune caratteristiche: l’attività domina i pensieri e assume un valore primario tra tutti gli interessi; nell’uso dello strumento si prova un aumento d’eccitazione o maggiore rilassatezza; è necessario aumentare il tempo d’uso per avere l’effetto desiderato; malessere psichico e/o fisico che si manifesta quando s’interrompe o si riduce l’utilizzo degli strumenti; si creano tensioni e liti tra chi utilizza gli strumenti e le persone che sono vicine, ma la persona che ne fa uso è in conflitto anche con se stessa, a causa del comportamento dipendente; tendenza a ricominciare l’attività dopo averla interrotta. Molti sono i disturbi correlati:  dell’Umore, d’Ansia, del Controllo degli Impulsi, di Personalità, problemi di autostima, disturbi del sonno, mal di schiena, mal di testa, sindrome del tunnel carpale, stanchezza degli occhi, irregolarità nell’alimentazione, alterazione dello stato di coscienza.

Come intervenire?

È importante rinforzare le strutture interne, aumentando l’autostima, sollecitando l’impegno in attività alternative più sane e la costruzione di una relazione di qualità con i pari. Inoltre, è importantissima la presenza e il sostegno da parte dei genitori  che devono essere disponibili ad ascoltare e condividere i problemi dei propri figli. Nei casi più problematici è importante intervenire con un sostegno psicologico sia per l’individuo, sia per la famiglia che si trova a fronteggiare il disagio.

Elaborazione del lutto nei bambini

Diverse volte nel mio lavoro come psicologa dell’età evolutiva mi è capitato di affrontare con i genitori il problema di come comunicare ai propri figli la morte di una persona amata, attraverso una modalità che fosse adatta e senza creare traumi nei bambini stessi.

È noto nella nostra società l’esistenza di un tabù rispetto alle esperienze di malattia, morte e lutto, ma ho potuto constatare quanto esso sia tanto più forte e censurante quando si tratta di introdurre tali temi con i bambini.

E’, infatti, estremamente diffusa la convinzione che i bambini debbano essere protetti dalla sofferenza attraverso l’allontanamento, il silenzio e l’evitamento di tutto ciò che ha a che fare con il mondo della malattia e della morte.

Di conseguenza è assai frequente che ai bambini vengano raccontare delle storie false per spiegare l’assenza di una persona che non c’è più, si tengono il più delle volte lontani dal contesto di dolore, il più delle volte, non viene presa nemmeno in considerazione la possibilità di far partecipare il bambino ai funerali e gli viene negato di salutare il morente.

Poter prendere parte ai rituali sociali di passaggio inerenti il lutto potrebbe invece rivelarsi particolarmente positivo. Il bambino in queste circostanze potrebbe comprendere che il dolore si può esprimere e mostrare, che non è il solo a provare sofferenza e tristezza (comprensione, legittimazione e condivisione emotiva da parte degli altri presenti); soprattutto, che è possibile supportarsi e sostenersi reciprocamente.

Bisogna anche considerare che la risposta dei bambini di fronte ad un evento di questo tipo non è per tutti la stessa. Infatti, le loro reazioni dipendono dall’interazione di molteplici fattori: l’età del bambino; la qualità del legame con la persona scomparsa; la possibilità di partecipare alla cura e al saluto della persona malata; le risorse dell’ambiente familiare e sociale; la possibilità di esprimere i propri sentimenti; la possibilità di proseguire la propria vita quotidiana.

Ogni bambino troverà un suo personale e specifico modo di elaborare il lutto. E’ comunque estremamente importante preparare, accompagnare e sostenere il bambino che si trova ad affrontare la scomparsa di un congiunto. Questo diventa fondamentale perché rappresenta un’occasione di apprendimento, in base alla quale saranno affrontate  le successive esperienze di perdita nel corso della vita.

Il lutto non è un momento, non è un evento, ma un processo che avviene nel tempo e che si ri-affronta più volte nel corso della vita, ad ogni nuova perdita e separazione.

Come ci si può prendere cura di un bambino che vive l’esperienza della morte di un nonno, di un amico, di un fratellino o di un genitore? Posto che ciascun legame e ciascuna figura ha la sua specificità, è vero che per i bambini il lutto richiede processi elaborativi complessi, che vanno sostenuti dagli adulti. Ci sono alcuni passaggi fondamentali:

–          Esprimere e comunicare il dolore: è l’adulto che per primo deve concedersi di dire il proprio dolore senza sentirsi inadeguato o di cattivo esempio. E’ importante che cerchi un linguaggio che sia da ponte verso il bambino e lo incoraggi nella manifestazione dei suoi stati d’animo, costruendo un ambiente accogliente e permissivo delle emozioni legate al lutto (tristezza, disorientamento, paura, rabbia, ecc.).

–          Dare una spiegazione: all’adulto spetta il compito di informare il bambino su quanto sta accadendo, potrebbe succedere o è già successo. Naturalmente in base all’età del bambino e alla sua capacità di comprendere il significato della morte l’adulto deve saper scegliere e calibrare le parole e le modalità più adatte. Spesso sono gli stessi adulti a sentirsi imbarazzati e spaventati nel dover spiegare qualcosa di grave ad un bambino, non sanno come farlo e soprattutto se sia giusto, temono di esporlo a maggiori sofferenze o a situazioni non comprensibili. Tenere i bambini all’oscuro da quello che succede di negativo, non li salvaguarda dalla sofferenza, inoltre sono in grado di comprendere molto bene che cosa sta accadendo, lo sentono, lo percepiscono, lo leggono dai volti, dalle conversazioni, dai non detti. I bambini sono interessati, a modo loro, al tema della morte e hanno bisogno di accostarvisi tramite una “guida” sicura.

–          Preparare e accompagnare il bambino: anche per i bambini è possibile imparare a confrontarsi con gli eventi dolorosi della vita, come il trauma, la malattia e la perdita. Nel momento in cui un bambino affronta per la prima volta la perdita di una persona che ama profondamente, è auspicabile, qualora l’evento non sia improvviso, che possa avvicinarsi e prepararsi gradualmente a quella scomparsa. Per permettere al bambino e al morente di salutarsi, per alleviare il possibile senso di colpa del bambino (anche rispetto al futuro); per aiutare il bambino a comprendere la finitezza della vita e delle relazioni umane che non significa subire una perdita assoluta.

–          Dare la possibilità di partecipare: partecipare ai rituali di saluto può rappresentare un’opportunità, un tassello nel percorso di elaborazione del bambino e per questo rivestire un significato importante. Poter esserci e poter salutare per l’ultima volta permette al bambino di farsi soggetto attivo, di inserire nella sua rappresentazione un’azione intrapresa e compiuta, non subìta. I bambini, a differenza degli adulti, non hanno la parola come canale privilegiato per raccontarsi. I bambini parlano con il corpo, con il gioco, con il disegno. Probabilmente la maggior parte dei bambini alternerà momenti di coinvolgimento e tristezza a momenti di gioco e apparente distrazione.

–      Condividere il ricordo: far emergere i ricordi in un ambiente supportivo, incoraggiare la narrazione e arricchirla per consolidare una rappresentazione positiva della relazione tra il bambino e la figura che ha dovuto lasciare.

Il lutto implica un impegnativo e faticoso lavoro psichico per tutti, ancora di più per i bambini. La morte però non è detto che debba rappresentare necessariamente un evento traumatizzante e devastante. Se ci dovessero essere delle difficoltà nel portare avanti un percorso di elaborazione del lutto è possibile richiedere un intervento specialistico, per accompagnare il bambino, i suoi adulti di riferimento e i suoi famigliari nel fronteggiare questo delicato passaggio di vita.

Chi sono i giovanissimi Binge-Drinkers; paure e desideri nascosti dietro l’utilizzo patologico dell’alcol.

Il Binge Drinking è l’assunzione di più bevande alcoliche in un intervallo di tempo abbastanza breve, lo scopo è quello dell’ abbuffata alcolica finalizzata all’ubriacatura e alla perdita del controllo.

Questo fenomeno, per quanto caratteristico dei paesi nord europei, si sta diffondendo velocemente anche in Italia, comincia a manifestarsi tra i giovanissimi prevalentemente maschi, ma non solo.

I binge drinkers rappresentano il 6,9% della popolazione di 11 anni e più, ma tra i giovani  maschi di 18-24 anni il fenomeno interessa ben il 20,1%, e comunque 14,8% ha ammesso comportamenti di binge drinking

L’effetto euforizzante, quello disinibente e il fatto che può effimeramente aiutare a dimenticare i problemi sono tra le motivazioni che più spingono i ragazzi ad avvicinarsi all’alcool sia in termini di binge drinking che in modo più strutturato. Gli alcolici preferiti sono i coktails, birra e vino a discapito dei superalcolici soprattutto perché tali sostanze sono più accessibili in termini economici data la giovane età del consumatore e la scarsa disponibilità economica.

I binge-drinkers, indugiano spesso in comportamenti a rischio sotto l’effetto dell’alcol. Il principale rischio è la guida in stato di ebbrezza, che, a sua volta, è la causa principale di incidenti stradali, spesso anche mortali. Le conseguenze principali sono il peggioramento delle prestazioni scolastiche, incluso l’abbandono degli studi, l’uso di droghe e attività sessuali non pianificate. Tra i maschi gli incidenti stradali con morte non sono infrequenti, tra le ragazza invece aumenta il rischio di subire violenza sessuale, ed è altresì alto il rischio di gravidanze indesiderate e malattie sessualmente trasmissibili.

Gli episodi di binge drinking sono quindi contraddistinti da:

–          eccessivo consumo di alcol;

–          assunzione di alcol molto rapidamente;

–          bere fino a sentirsi male e ad ubriacarsi;

–          bere in compagnia;


Fra i principali fattori di rischio ambientali associati al binge-drinking troviamo:

–          alcolismo in famiglia, specialmente in uno dei due genitori;

–          scarso supporto e controllo genitoriale;

–          cattiva qualità della comunicazione familiare;

–          abitudine al bere tra il gruppo dei pari;

–          consumo abituale di alcol tra il gruppo di amici;

–          precedenti episodi di binge-drinking;

Il fenomeno del binge-drinking si associa spesso alla pressione derivante dall’ambiente sociale, questo vale sia per gli studenti che entrano nel mondo universitario che per quelli delle scuole medie, in entrambi questi ambienti – seppur con pressioni qualitativamente diverse – i ragazzi sembrerebbero utilizzare l’alcol come facilitatore della socializzazione e come modulatore di aspetti ansiosi per soddisfare il desiderio di equipararsi al gruppo dei pari e la voglia di accettazione.

L’alcol tra i giovani è sinonimo di forza, al punto che una persona viene considerata tanto più forte quanto più riesce a reggerlo. Al gesto del bere, i giovani danno un importante valore di socializzazione, e i luoghi dove si beve sono percepiti come luoghi  di incontro, in cui è possibile  sviluppare e mantenere relazioni di solidarietà amicizia con altri ragazzi.

Come già detto il problema del binge-drinking sembra coinvolgere i giovani nel momento del loro ingresso alle scuole medie, pertanto, la scuola stessa potrebbe avere un ruolo di primaria importanza nell’attuazione di strategie di prevenzione; un’altra via importante per il contrasto al fenomeno potrebbe essere quella di coinvolgere le famiglie sensibilizzandole al tema, informandole e incoraggiando i genitori  a spiegare rischi e conseguenze del bere con abbuffate.

Nel trattamento del binge-drinking con gli adolescenti è fortemente sconsigliata la terapia farmacologia, a favore invece di trattamenti preventivi e/o di trattamenti psicoterapeutici che possano anche coinvolgere l’intera famiglia nonché l’utilizzo della figura del “compagno adulto” come supporto a lungo termine.

Quindi, appare importante oltre ai cambiamenti ambientali, una qualche forma di psicoterapia in grado sia di modificare le aspettative che i giovani hanno riguardo agli effetti dell’alcol e allo status sociale in cui li pone, ma che lavori anche sul loro senso di autoefficacia nel resistere al desiderio di bere e più in generale su aspetti di autostima con un occhio al processo di svincolo dalla famiglia di origine andando a rintracciare tutte quelle condizioni che potrebbero agire in senso negativo rafforzando aspetti di dipendenza e di collusione.

Bibliografia di riferimento:

Ministero della Salute, 2013, Relazione del Ministro della Salute al Parlamento sugli interventi realizzati ai sensi della L.30.03.2001 n. 125 “Legge quadro in Materia di alcol e problemi di alcol correlati”;

Baiocco, R., D’Alessio, M., Fiorenzo L. 2012, I giovani e l’alcol: il fenomeno del binge drinking,
Carocci Faber Editore

Quel vuoto incolmabile delle persone che soffrono di disturbo da alimentazione incontrollata binge eating disorder BED

Il Binge Eating Disorder  è un disturbo del comportamento alimentare che si presenta con episodi di abbuffate alimentare, è un comportamento che può presentarsi durante la fase adolescenziale ma non solo, al contrario della bulimia nervosa può ma non sempre presentare comportamenti compensatori come il vomito o l’utilizzo di lassativi, più frequente è invece presente la fase di digiuno successiva.

Le persone che manifestano questo tipo di disordine sono persone sofferenti, con una scarsa considerazione di se stesse e il cibo, nella forma delle abbuffate, diventa un modo per calmare ansie e sofferenze.

Come si manifesta il disturbo:

–         Le abbuffate devono avvenire almeno due volte alla settimana;

–         Le abbuffate devono versi farsi per un periodo di almeno sei mesi;

–         Le abbuffate sono generalmente indipendenti dallo stimo della fame;

–         Le abbuffate avvengono quasi sempre in solitudine;

–         Le abbuffate non ottengono un effetto gratificante per la persona ma soltanto un vissuto di colpa;

–         Le abbuffate non comportano un meccanismo di compensazione (vomito, lassativi o esercizio fisico).


L’assenza di strategie compensatorie strutturate  per il controllo del peso determina, nella maggior parte dei casi, un aumento consistente del peso corporeo alimentando ancor più il senso di inadeguatezza e frustrazione che è poi il vissuto emotivo  che determina il ritorno alla necessità dell’abbuffata innescando  un circolo vizioso che non lascia scampo alla persona. Uno stato depressivo sottostante ed aspetti di scarsa autostima sono sicuramente alcuni degli aspetti de favoriscono l’insorgenza del disturbo e alimentano il BED.

L’intervento terapeutico che meglio si adatta al Binge Eating Disorder è sicuramente uno di tipo multidisciplinare che possa prevedere una collaborazione tra diversi specialisti: psicoterapeuta, nutrizionista e psichiatra  laddove risulti necessaria l’assunzione di farmaci soprattutto per la modulazione dell’umore con l’assunzione di ansiolitici ed antidepressivi.

La psicoterapia dovrà tenere in considerazione aspetti diversi della persona:  sia quelli legati al dimorfismo corporeo che quelli più legati a vissuti ansiosi e depressivi, la presa in carico della situazione dovrà tenere conto della profonda complessità emotiva e relazionale in cui vive la persone affetta dal Binge Eating Disorder.

Il bambino e il suo amico immaginario

Quante volte ci è capitato di vedere un bambino o nostro figlio parlare o giocare con qualcuno anche se è da solo? Quel qualcuno potrebbe essere il suo amico immaginario, una creazione immaginaria positiva molto comune. È una fase tipica che attraversano molti bambini tra i 3 e gli 8 anni, fascia d’età in cui la capacità di distinguere tra realtà e sogno non è ancora acquisita.

È maggiormente frequente in bambini che hanno problemi di tipo emozionale, che hanno subito traumi, che vivono o hanno vissuto situazioni stressanti, l’uso della fantasia è il modo più sano che un bambino possa usare, e che gli adulti spesso invece dimenticano di possedere, per affrontare le proprie ansie e i propri problemi, piccoli o grandi.   Spesso l’amico immaginario si presenta quando l’ambiente attorno al bambino subisce un cambiamento o quando per vari motivi il bambino si trova frequentemente da solo. Per un certo periodo di tempo, questi personaggi accompagnano la crescita del bambino, crescendo e maturando anch’essi; può accadere che un compagno immaginario, creato inizialmente per puro e semplice divertimento all’interno di una situazione di gioco simbolico assolva poi altre funzioni, e diventi ad esempio fonte di conforto per il bambino nei momenti difficili o alleato prezioso nella lotta contro le sue paure. Altre volte, invece, può succedere il contrario, e cioè che l’amico, inventato in risposta ad un bisogno emotivo specifico, si riveli poi un compagno di giochi senza rivali, che, oltre ad aiutare, può anche divertire.  I bambini creano un compagno di giochi immaginario per portare fuori da se tutte quelle emozioni, tensioni e preoccupazioni che possono far parte della vita di tutti i giorni. Un amico che ci consola e che non rivela a nessuno le nostre preoccupazioni, può essere utile. Il bambino usa la sua immaginazione, non per scappare dalla realtà, ma per riuscire ad affrontarla nel modo migliore.

 I compagni immaginari, sia che ci si riferisca a situazioni infantili normali o particolari, svolgono funzioni fondamentali per lo sviluppo della personalità dei bambini che li inventano. Sanno rassicurare, consolare e dare conforto nei momenti difficili del “diventare grandi”; sanno compensare la loro fragilità o i limiti che l’essere piccoli impone. La straordinarietà di questa creazione sta nel fatto che esso assume, nella maggior parte dei casi, più ruoli contemporaneamente, a seconda delle necessità e dei bisogni emotivi del proprio creatore. In certi momenti può essere un compagno di giochi senza rivali, che usa le sue caratteristiche speciali per far vivere al bambino avventure senza fine, in altri può diventare una valvola di sfogo e un consolatore dolce e comprensivo, in altri ancora può ascoltare i dubbi e le preoccupazioni del bambino e rasserenarne l’anima, rassicurandolo.  Può essere una fonte di energia inesauribile, quando si è spaventati, il fatto di avere accanto qualcuno più forte e più abile di noi ci fa sentire più sicuri e ci dà il coraggio di affrontare le situazioni difficili.

Come ci si deve comportare?

– Se non vi sentite a vostro agio, nel calarvi in questo gioco, limitatevi ad ignorarlo. E’ preferibile però evitare frasi del tipo: “è una cosa stupida”, “non si può parlare con qualcuno che non esiste”. I bambini sanno perfettamente che i personaggi della fantasia vivono in un’altra dimensione rispetto a quella in cui vivono le persone in carne ed ossa e non si stupiscono affatto se voi non volete entrare nel loro mondo di fantasia.

– Se invece vi sentite di stare al gioco limitatevi a partecipare alle sue fantasie senza voler prendere le redini, razionalizzare il tutto o imporre le vostre regole.

– Se vostro figlio, o figlia, attribuisce le conseguenze delle sue azioni all’amico immaginario, come ad esempio, in una reazione di rabbia colpisce un bicchiere e poi dice: “è stato Paolo a versare l’acqua sul tavolo, non io!”,  potete creare una soluzione immaginaria al problema immaginario rispondendo: “allora potete pulire il tavolo tutti e due insieme!”, evitando in questo modo un conflitto, pur considerando il bambino responsabile di ciò che ha fatto.

Inoltre, è importante sapere che l’amico invisibile deve restare tale e con lui tutte le conseguenze delle sue azioni o desideri. Se per esempio,  l’amico siede a tavola con noi, avrà posate e piatti invisibili e mangerà un cibo invisibile, sarebbe sbagliato se gli riservassimo uno spazio reale (una sedia e dei piatti) confonderemmo i piani e nostro figlio potrebbe pensare che ci crediamo “veramente”.

Infine, ci dobbiamo preoccupare quando il bambino è talmente coinvolto nel suo rapporto con l’amico o gli amici immaginari da non voler più giocare con i bambini in carne ed ossa. In questo caso può servire l’aiuto di uno psicologo.

Un base sicura. Che cosa è l’attaccamento e perché è così importante

Gli esseri umani hanno una predisposizione innata a formare relazioni di attaccamento con le figure genitoriali perché queste relazioni hanno la funzione di protezione e di accudimento per garantire la sopravvivenza dei piccoli.

L’attaccamento caratterizza l’essere umano dalla culla alla tomba! diceva J. Bowlby

Sostenere che un bambino ha un attaccamento sta a significare che egli avverte il bisogno di avere la vicinanza ed il contatto fisico con una persona di riferimento  soprattutto in situazioni particolari come quelle di disagio.

L’attaccamento non è solo un comportamento, non è solo un legame di affetto ma è un sistema motivazionale, un’attività mentale complessa che organizza sia l’esperienza emozionale che i comportamenti interpersonali ed elabora la rappresentazione mentale che si ha di se stessi nel rapporto con l’altro.

Ha una base innata ma è influenzabile dall’esperienza, non è però influenzabile da situazioni momentanee, perdura nel tempo dopo essersi strutturato nei primi mesi di vita intorno ad una unica figura di riferimento che solitamente coincide con la madre, ma non è escluso che anche un padre o una nonna possano diventare figure di attaccamento significative e valide.

La presenza rassicurante della madre permette al bambino di esplorare il mondo circostante. La vicinanza protettiva della madre con comportamenti come il tenere in braccio, rispondere prontamente al pianto, coccolarlo, accarezzarlo permette al bambino di integrare gli aspetti positivi e negativi delle esperienze vissute, di sviluppare una capacità comunicativa, di definire i confini corporei del proprio Sé.

Le relazioni di attaccamento si stabiliscono verso più persone oltre alla madre in una gerarchia di importanza comprendendo anche il papà o i nonni o altre figure di accudimento significative.

La qualità dell’esperienza definisce la sicurezza dell’attaccamento in base alla sensibilità ed empatia della madre o di chi ha il compito di prendersi cura del piccolo e contribuisce alla creazione di modelli operativi interni che caratterizzano i comportamenti relazionali futuri.

Con la crescita l’attaccamento si modifica: da un investimento iniziale unico ed esclusivo sulla madre comincerà a coinvolgere e ad interessare anche altre figure prima interne e poi esterne alla famiglia, fino a ridursi. Nell’adolescenza prima e poi nell’età adulta la persona avrà maturato la capacità di separazione dalle prime figure di accudimento e sperimenterà la bellezza di legarsi a nuove figure di attaccamento come un amico o una fidanzata.

Le Fasi dell’attaccamento

J. Bowlby riteneva che l’attaccamento si sviluppasse attraverso alcune fasi, e che potesse essere di tipo “sicuro” o “insicuro”. Un attaccamento di tipo sicuro si ha se il bambino sente di avere dalla figura di riferimento protezione, senso di sicurezza, affetto; in un attaccamento di tipo insicuro invece il bambino riversa sulla figura di riferimento comportamenti e sentimenti come instabilità, prudenza, eccessiva dipendenza, paura dell’abbandono.

Si identificano quattro fasi attraverso le quali si sviluppa il legame di attaccamento:

dalla nascita fino alle otto-dodici settimane: il neonato non è in grado di discriminare le persone che lo circondano anche se può riuscire a riconoscere, attraverso l’odore e la voce, la propria madre. Superate le dodici settimane il piccolo comincia a dare maggiori risposte agli stimoli sociali. In un secondo momento il bambino, pur mantenendo comportamenti generalmente cordiali con chi lo circonda, metterà in atto modi di fare sempre più selettivi, soprattutto con la figura materna;

sesto / settimo mese, il neonato diviene maggiormente discriminante nei confronti della persone con le quali entra in contatto;

dal nono mese l’attaccamento con la figura di accudimento si fa stabile e visibile: il neonato richiama l’attenzione della figura di riferimento, la saluta, la usa come base per esplorare l’ambiente, ricerca in lei protezione in particolare se si trova a cospetto di un estraneo;

il comportamento di attaccamento è stabile e profondo fino a circa tre anni, età in cui il bambino acquisisce la capacità di mantenere tranquillità e sicurezza in un ambiente sconosciuto; deve però essere in compagnia di figure di riferimento secondarie, ed avere la certezza che la mamma faccia faccia presto ritorno.

I tipi di attaccamento

stile “sicuro”: il bambino esplora l’ambiente e gioca sotto lo sguardo vigile della madre con cui interagisce; quando la madre esce e rimane con lo sconosciuto il bambino è visibilmente turbato. Al ritorno della madre si tranquillizza e si lascia consolare;

stile “insicuro-evitante”: il bambino esplora l’ambiente ignorando la madre, è indifferente alla sua uscita e non si lascia avvicinare al suo ritorno.

stile “insicuro-ambivalente”: il bambino ha comportamenti contraddittori nei confronti della madre, a tratti la ignora, a tratti cerca il contatto. Quando la madre se ne va e poi ritorna risulta inconsolabile.

stile “disorganizzato”: il bambino mette in atto dei comportamenti stereotipici, ed è sorpreso/stupefatto quando la madre si allontana.

Attraverso una serie di sperimentazioni (strange situation , M. Ainsworth e J. Bowlby) si è potuto notare come il comportamento di attaccamento, osservato tra la madre e il suo bambino, oltre a fornire protezione al piccolo, serviva a costituire una “base sicura” a cui il bambino potesse ritornare nelle fasi di esplorazione dell’ambiente circostante. Questa “base sicura” permette così di promuovere nel bambino un senso di fiducia in se stesso, favorendone progressivamente l’autonomia.

E’ importante che il legame di attaccamento si sviluppi in maniera adeguata in quanto da esso dipende un buon sviluppo della persona. La qualità della precoce esperienza con la figura di attaccamento caratterizzerà poi tutte le successive relazioni divenendo una aspetto della personalità dell’individuo e un modello relazionale per i rapporti futuri.

Bibliografia di riferimento

John Bowlby, Attaccamento e perdita 1, Bollati Boringhieri, Torino 1999

John Bowlby, Attaccamento e perdita 2, Bollati Boringhieri, Torino 2000

Mary D. Ainsworth, Modelli di attaccamento e sviluppo della personalità, Raffaello Cortina, Milano 2006

Shopping Mon Amour, I love Shopping … Shopping che passione?

Il disturbo da shopping compulsivo rientra nella più ampia categoria del disturbo del controllo degli impulsi che così come definiti dal DSM-IV, sono disturbi di natura psichica caratterizzati dall’irrefrenabile impulso di compiere un gesto o un azione, sono sovente preceduti da uno stato di forte attivazione ansiosa ma nonostante ciò, dopo il compimento dell’azione spesso il vissuto è quello del senso di colpa, frustrazione e vergogna.

Si avverte la sensazione di eccitamento nel momento prima di compiere l’azione che determina piacere e gratificazione ma la cui durata è spesso breve ed effimera.

Gli oggetti che si comprano sono inutili o eccessivi – come l’acquisto di scarpe o dell’ennesimo vestito – nonostante ciò l’acquisto non può non essere evitato o ricercato. Gli episodi di acquisto compulsivo possono ripetersi più volte anche in un solo giorno e possono determinare uno stato di profondo disagio per la persona proprio perché la stessa si rende conto dell’inutilità del gesto e dell’oggetto,  e del danno sul piano finanziario, relazionale e lavorativo.

Nello shopping compulsivo si possono identificare dei prodromi tipici caratterizzati tutti dal senso di urgenza nel dovere acquistare qualcosa a volte qualcosa di specifico altre volte solamente un semplice acquisto. Quando ci si prepara all’acquisto le emozioni tipiche sono sgradevoli come la tristezza, la rabbia o la noia, emozioni però che non possono essere riconosciute dalla persona che vive solo un senso di insoddisfazione e inadeguatezza profonde e che vede nell’acquisto la risoluzione di tale malessere.

La necessità dell’acquisto ripetuto e compulsivo determina anche l’acquisizione di strategie economiche per la soddisfazione: spesso queste persone si trovano ad avere più carte di credito, ad utilizzarle in maniera disordinata, a chiedere prestiti e comunque a compromettere in maniera consistente l’aspetto economico personale e familiare.

Si acquistano oggetti dai quali si è ammaliati, talvolta gli si attribuisce quasi un potere magico, salvifico: l’acquisto di quello specifico oggetto, o di quel determinato paio di scarpe potrebbe rendere la persona migliore e finalmente serena, potrebbe risolverle tutti i problemi!

In realtà quello che accade immediatamente dopo è un senso di frustrazione profondo nonché un vissuto di colpa per l’acquisto fatto e tutta l’euforia che aveva preceduto l’acquisto immediatamente scompare per lasciare spazio ad un senso di sconforto, di vergogna e delusione.

Un episodio di acquisto compulsivo sembrerebbe organizzarsi intorno a specifiche emozioni e non su reali bisogni.

Gli oggetti acquistati non solo non sono realmente necessari, ma spesso sono solo delle copie di cose che già si posseggono e comunque una volta acquistati perdono subito la loro importanza per essere dimenticati nell’armadio, regalati o nascosti.

Le persone che soffrono di questo disturbo spesso riconoscono di avere un problema, la categoria più a rischio è quella femminile  tra i 20 e i 30 anni di età.

L’acquisto compulsivo sembrerebbe essere a tutti gli effetti un processo di compensazione interno che ha l’azione di determinare un senso di pace interiore momentanea e fittizia rispetto a qualcosa che manca e di cui si ha un forte bisogno ma che chiaramente non è nulla di materiale. Lo shopping avrebbe il compito di alleviare la persona da uno doloroso stato emotivo sottostante, spesso di natura depressiva, di cui però non si è completamente consapevoli. 

Il percorso di psicoterapia può aiutare la persona a distingue i reali bisogni emotivi,  a controllare gli aspetti compulsivi per arrivare a comprendere la vera natura del disagio.