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Come riconoscere e cosa fare con un bambino oppositivo-provocatorio
Che cos’è? Il Disturbo Oppositivo Provocatorio (DOP) è una patologia neuropsichiatrica dell’età evolutiva, caratterizzata da una modalità ricorrente di comportamento negativistico, ostile e di sfida, che però non arriva a violare le norme sociali né diritti altrui.
La diagnosi in età evolutiva non è sempre facile, in quanto, il soggetto attraversa un periodo d’instabilità, in cui affronta cambiamenti repentini che lo fanno crescere mentalmente e fisicamente. Spesso tra normalità e patologia c’è un confine molto sottile, che diventa quasi invisibile quando si analizzano dei bambini. Infatti, nel corso della prima infanzia spesso i bambini diventano davvero incontrollabili, corrono da una parte all’altra, rompono tutto per la curiosità di scoprire come sono fatte le cose all’interno. L’aggressività e l’ostilità sono mezzi attraverso i quali si esprime l’egoismo infantile e servono al bambino per imparare a distinguere il sé dagli altri, a capire le regole sociali ed a sperimentare le prime forme d’adattamento.
Possono essere scontrosi e capricciosi ma nei bambini che manifestano comportamenti oppostivo provocatori queste caratteristiche si presentano amplificate tanto da arrivare a compromettere, in maniera significativa, il loro inserimento sociale.
Come si manifestano i bambini con tale disturbo?
Il bambino può presentare spesso collera, sfida o rifiuto di rispettare le regole proposte dagli adulti, spesso litiga con gli adulti e irrita deliberatamente le persone, accusa gli altri per i propri errori o il proprio cattivo comportamento. È spesso arrabbiato, rancoroso, dispettoso e vendicativo. Già nell’età prescolare, può avere temperamenti problematici ma è intorno ai 3 – 4 anni, con l’ingresso a scuola che il problema diverrà sempre più evidente. Questi bambini, infatti, mostrano una totale incapacità di adattamento alle regole scolastiche, influenzando anche l’attività didattica dell’intera classe. Possono presentare scarsa autostima, labilità d’umore, scarsa tolleranza alla frustrazione, conflitti con genitori, insegnanti e coetanei.
Prendersene cura è molto difficile, sono causa di stanchezza, di scoraggiamento e di frustrazione per chiunque cerchi di instaurare con loro un rapporto.
Come aiutarli ad uscire da questo stato di disagio?
La parola d’ordine, di un buon intervento educativo e psicologico, dovrà essere “comprensione”.
Sono bambini che non vanno curati, né cambiati, ma prima di tutto capiti.
Con i loro comportamenti sembrano volerci allontanare, ma se ce ne andiamo soffrono di solitudine.
Forse sono ostili perché cercano di difendersi, a causa di traumi che li hanno portati a diffidare degli altri, oppure vogliono attirare l’attenzione, perché hanno bisogno di comunicare i loro problemi e non conoscono altro canale che l’aggressività.
Il soggetto affetto dal DOP non vive una vita felice e serena, l’immagine che ha di sé è molto svalutante, si considera un incapace, indegno dell’amore altrui e crede che nessuno mai gli potrà essere amico, si sente continuamente rifiutato, anche se sa di essere lui stesso la causa del suo isolamento. Il rapporto che questi soggetti hanno con i loro parenti è molto complesso, alla lunga, tende a sgretolare l’unità familiare.
Sono gli stessi genitori ad attribuire ai loro figli delle etichette, a definirli “insopportabili”, “aggressivi”, “terribili”. Queste espressioni che possono essere dettate da un momento di collera, se ripetute più e più volte, vengono interiorizzate dal bambino.
Se qualcuno gli si avvicina per instaurare un rapporto, anziché esserne felice, si mostra diffidente e reagisce con il suo repertorio di comportamenti ostili, come a voler mettere alla prova le intenzioni del suo interlocutore: “Mi vuoi bene anche se ti dimostro che non valgo niente, anche se ti faccio vedere che mi sono preso gioco di te? Mi vuoi bene anche se io stesso sono sicuro di essere un buono a nulla, e sono certo che nessuno mi potrà mai amare?”.
Diversi sono i metodi, utilizzabili sia in un contesto scolastico che familiare, che permettono di “punire” il bambino in maniera intelligente, evitando cioè di fare ricorso a castighi rigidi e rimproveri umilianti, che potrebbero produrre effetti indesiderati. Per esempio: preferire sempre la perdita di un privilegio (es. uscire o guardare la tv) alla punizione (es. fare qualcosa di spiacevole); se si decide di punire NON usare mai la violenza fisica; ricordarsi di dare il “buon esempio”.
La punizione non dovrà servire a formulare giudizi, ma dovrà limitarsi a descrivere il comportamento indesiderato in maniera obiettiva. Al bambino verranno spiegate le motivazioni che rendono sbagliata tale condotta, verranno suggerite modalità comportamentali alternative e verranno indicati i vantaggi derivanti dalla loro messa in atto.
Inoltre, è molto utile concentrare l’attenzione sui genitori e sulle loro pratiche educative, perché possono aver giocato un ruolo importante nello sviluppo e nel mantenimento del disagio. Si deve evitare sempre di dare giudizi pessimistici, perché possono generare stati emotivi negativi nei genitori. Invece è importante sostenerli per trovare le strategie giuste affinché si possa modificare l’attuale situazione.
Elaborazione del lutto nei bambini
Diverse volte nel mio lavoro come psicologa dell’età evolutiva mi è capitato di affrontare con i genitori il problema di come comunicare ai propri figli la morte di una persona amata, attraverso una modalità che fosse adatta e senza creare traumi nei bambini stessi.
È noto nella nostra società l’esistenza di un tabù rispetto alle esperienze di malattia, morte e lutto, ma ho potuto constatare quanto esso sia tanto più forte e censurante quando si tratta di introdurre tali temi con i bambini.
E’, infatti, estremamente diffusa la convinzione che i bambini debbano essere protetti dalla sofferenza attraverso l’allontanamento, il silenzio e l’evitamento di tutto ciò che ha a che fare con il mondo della malattia e della morte.
Di conseguenza è assai frequente che ai bambini vengano raccontare delle storie false per spiegare l’assenza di una persona che non c’è più, si tengono il più delle volte lontani dal contesto di dolore, il più delle volte, non viene presa nemmeno in considerazione la possibilità di far partecipare il bambino ai funerali e gli viene negato di salutare il morente.
Poter prendere parte ai rituali sociali di passaggio inerenti il lutto potrebbe invece rivelarsi particolarmente positivo. Il bambino in queste circostanze potrebbe comprendere che il dolore si può esprimere e mostrare, che non è il solo a provare sofferenza e tristezza (comprensione, legittimazione e condivisione emotiva da parte degli altri presenti); soprattutto, che è possibile supportarsi e sostenersi reciprocamente.
Bisogna anche considerare che la risposta dei bambini di fronte ad un evento di questo tipo non è per tutti la stessa. Infatti, le loro reazioni dipendono dall’interazione di molteplici fattori: l’età del bambino; la qualità del legame con la persona scomparsa; la possibilità di partecipare alla cura e al saluto della persona malata; le risorse dell’ambiente familiare e sociale; la possibilità di esprimere i propri sentimenti; la possibilità di proseguire la propria vita quotidiana.
Ogni bambino troverà un suo personale e specifico modo di elaborare il lutto. E’ comunque estremamente importante preparare, accompagnare e sostenere il bambino che si trova ad affrontare la scomparsa di un congiunto. Questo diventa fondamentale perché rappresenta un’occasione di apprendimento, in base alla quale saranno affrontate le successive esperienze di perdita nel corso della vita.
Il lutto non è un momento, non è un evento, ma un processo che avviene nel tempo e che si ri-affronta più volte nel corso della vita, ad ogni nuova perdita e separazione.
Come ci si può prendere cura di un bambino che vive l’esperienza della morte di un nonno, di un amico, di un fratellino o di un genitore? Posto che ciascun legame e ciascuna figura ha la sua specificità, è vero che per i bambini il lutto richiede processi elaborativi complessi, che vanno sostenuti dagli adulti. Ci sono alcuni passaggi fondamentali:
– Esprimere e comunicare il dolore: è l’adulto che per primo deve concedersi di dire il proprio dolore senza sentirsi inadeguato o di cattivo esempio. E’ importante che cerchi un linguaggio che sia da ponte verso il bambino e lo incoraggi nella manifestazione dei suoi stati d’animo, costruendo un ambiente accogliente e permissivo delle emozioni legate al lutto (tristezza, disorientamento, paura, rabbia, ecc.).
– Dare una spiegazione: all’adulto spetta il compito di informare il bambino su quanto sta accadendo, potrebbe succedere o è già successo. Naturalmente in base all’età del bambino e alla sua capacità di comprendere il significato della morte l’adulto deve saper scegliere e calibrare le parole e le modalità più adatte. Spesso sono gli stessi adulti a sentirsi imbarazzati e spaventati nel dover spiegare qualcosa di grave ad un bambino, non sanno come farlo e soprattutto se sia giusto, temono di esporlo a maggiori sofferenze o a situazioni non comprensibili. Tenere i bambini all’oscuro da quello che succede di negativo, non li salvaguarda dalla sofferenza, inoltre sono in grado di comprendere molto bene che cosa sta accadendo, lo sentono, lo percepiscono, lo leggono dai volti, dalle conversazioni, dai non detti. I bambini sono interessati, a modo loro, al tema della morte e hanno bisogno di accostarvisi tramite una “guida” sicura.
– Preparare e accompagnare il bambino: anche per i bambini è possibile imparare a confrontarsi con gli eventi dolorosi della vita, come il trauma, la malattia e la perdita. Nel momento in cui un bambino affronta per la prima volta la perdita di una persona che ama profondamente, è auspicabile, qualora l’evento non sia improvviso, che possa avvicinarsi e prepararsi gradualmente a quella scomparsa. Per permettere al bambino e al morente di salutarsi, per alleviare il possibile senso di colpa del bambino (anche rispetto al futuro); per aiutare il bambino a comprendere la finitezza della vita e delle relazioni umane che non significa subire una perdita assoluta.
– Dare la possibilità di partecipare: partecipare ai rituali di saluto può rappresentare un’opportunità, un tassello nel percorso di elaborazione del bambino e per questo rivestire un significato importante. Poter esserci e poter salutare per l’ultima volta permette al bambino di farsi soggetto attivo, di inserire nella sua rappresentazione un’azione intrapresa e compiuta, non subìta. I bambini, a differenza degli adulti, non hanno la parola come canale privilegiato per raccontarsi. I bambini parlano con il corpo, con il gioco, con il disegno. Probabilmente la maggior parte dei bambini alternerà momenti di coinvolgimento e tristezza a momenti di gioco e apparente distrazione.
– Condividere il ricordo: far emergere i ricordi in un ambiente supportivo, incoraggiare la narrazione e arricchirla per consolidare una rappresentazione positiva della relazione tra il bambino e la figura che ha dovuto lasciare.
Il lutto implica un impegnativo e faticoso lavoro psichico per tutti, ancora di più per i bambini. La morte però non è detto che debba rappresentare necessariamente un evento traumatizzante e devastante. Se ci dovessero essere delle difficoltà nel portare avanti un percorso di elaborazione del lutto è possibile richiedere un intervento specialistico, per accompagnare il bambino, i suoi adulti di riferimento e i suoi famigliari nel fronteggiare questo delicato passaggio di vita.
Il bambino e il suo amico immaginario
Quante volte ci è capitato di vedere un bambino o nostro figlio parlare o giocare con qualcuno anche se è da solo? Quel qualcuno potrebbe essere il suo amico immaginario, una creazione immaginaria positiva molto comune. È una fase tipica che attraversano molti bambini tra i 3 e gli 8 anni, fascia d’età in cui la capacità di distinguere tra realtà e sogno non è ancora acquisita.
È maggiormente frequente in bambini che hanno problemi di tipo emozionale, che hanno subito traumi, che vivono o hanno vissuto situazioni stressanti, l’uso della fantasia è il modo più sano che un bambino possa usare, e che gli adulti spesso invece dimenticano di possedere, per affrontare le proprie ansie e i propri problemi, piccoli o grandi. Spesso l’amico immaginario si presenta quando l’ambiente attorno al bambino subisce un cambiamento o quando per vari motivi il bambino si trova frequentemente da solo. Per un certo periodo di tempo, questi personaggi accompagnano la crescita del bambino, crescendo e maturando anch’essi; può accadere che un compagno immaginario, creato inizialmente per puro e semplice divertimento all’interno di una situazione di gioco simbolico assolva poi altre funzioni, e diventi ad esempio fonte di conforto per il bambino nei momenti difficili o alleato prezioso nella lotta contro le sue paure. Altre volte, invece, può succedere il contrario, e cioè che l’amico, inventato in risposta ad un bisogno emotivo specifico, si riveli poi un compagno di giochi senza rivali, che, oltre ad aiutare, può anche divertire. I bambini creano un compagno di giochi immaginario per portare fuori da se tutte quelle emozioni, tensioni e preoccupazioni che possono far parte della vita di tutti i giorni. Un amico che ci consola e che non rivela a nessuno le nostre preoccupazioni, può essere utile. Il bambino usa la sua immaginazione, non per scappare dalla realtà, ma per riuscire ad affrontarla nel modo migliore.
I compagni immaginari, sia che ci si riferisca a situazioni infantili normali o particolari, svolgono funzioni fondamentali per lo sviluppo della personalità dei bambini che li inventano. Sanno rassicurare, consolare e dare conforto nei momenti difficili del “diventare grandi”; sanno compensare la loro fragilità o i limiti che l’essere piccoli impone. La straordinarietà di questa creazione sta nel fatto che esso assume, nella maggior parte dei casi, più ruoli contemporaneamente, a seconda delle necessità e dei bisogni emotivi del proprio creatore. In certi momenti può essere un compagno di giochi senza rivali, che usa le sue caratteristiche speciali per far vivere al bambino avventure senza fine, in altri può diventare una valvola di sfogo e un consolatore dolce e comprensivo, in altri ancora può ascoltare i dubbi e le preoccupazioni del bambino e rasserenarne l’anima, rassicurandolo. Può essere una fonte di energia inesauribile, quando si è spaventati, il fatto di avere accanto qualcuno più forte e più abile di noi ci fa sentire più sicuri e ci dà il coraggio di affrontare le situazioni difficili.
Come ci si deve comportare?
– Se non vi sentite a vostro agio, nel calarvi in questo gioco, limitatevi ad ignorarlo. E’ preferibile però evitare frasi del tipo: “è una cosa stupida”, “non si può parlare con qualcuno che non esiste”. I bambini sanno perfettamente che i personaggi della fantasia vivono in un’altra dimensione rispetto a quella in cui vivono le persone in carne ed ossa e non si stupiscono affatto se voi non volete entrare nel loro mondo di fantasia.
– Se invece vi sentite di stare al gioco limitatevi a partecipare alle sue fantasie senza voler prendere le redini, razionalizzare il tutto o imporre le vostre regole.
– Se vostro figlio, o figlia, attribuisce le conseguenze delle sue azioni all’amico immaginario, come ad esempio, in una reazione di rabbia colpisce un bicchiere e poi dice: “è stato Paolo a versare l’acqua sul tavolo, non io!”, potete creare una soluzione immaginaria al problema immaginario rispondendo: “allora potete pulire il tavolo tutti e due insieme!”, evitando in questo modo un conflitto, pur considerando il bambino responsabile di ciò che ha fatto.
Inoltre, è importante sapere che l’amico invisibile deve restare tale e con lui tutte le conseguenze delle sue azioni o desideri. Se per esempio, l’amico siede a tavola con noi, avrà posate e piatti invisibili e mangerà un cibo invisibile, sarebbe sbagliato se gli riservassimo uno spazio reale (una sedia e dei piatti) confonderemmo i piani e nostro figlio potrebbe pensare che ci crediamo “veramente”.
Infine, ci dobbiamo preoccupare quando il bambino è talmente coinvolto nel suo rapporto con l’amico o gli amici immaginari da non voler più giocare con i bambini in carne ed ossa. In questo caso può servire l’aiuto di uno psicologo.
Un base sicura. Che cosa è l’attaccamento e perché è così importante
Gli esseri umani hanno una predisposizione innata a formare relazioni di attaccamento con le figure genitoriali perché queste relazioni hanno la funzione di protezione e di accudimento per garantire la sopravvivenza dei piccoli.
L’attaccamento caratterizza l’essere umano dalla culla alla tomba! diceva J. Bowlby
Sostenere che un bambino ha un attaccamento sta a significare che egli avverte il bisogno di avere la vicinanza ed il contatto fisico con una persona di riferimento soprattutto in situazioni particolari come quelle di disagio.
L’attaccamento non è solo un comportamento, non è solo un legame di affetto ma è un sistema motivazionale, un’attività mentale complessa che organizza sia l’esperienza emozionale che i comportamenti interpersonali ed elabora la rappresentazione mentale che si ha di se stessi nel rapporto con l’altro.
Ha una base innata ma è influenzabile dall’esperienza, non è però influenzabile da situazioni momentanee, perdura nel tempo dopo essersi strutturato nei primi mesi di vita intorno ad una unica figura di riferimento che solitamente coincide con la madre, ma non è escluso che anche un padre o una nonna possano diventare figure di attaccamento significative e valide.
La presenza rassicurante della madre permette al bambino di esplorare il mondo circostante. La vicinanza protettiva della madre con comportamenti come il tenere in braccio, rispondere prontamente al pianto, coccolarlo, accarezzarlo permette al bambino di integrare gli aspetti positivi e negativi delle esperienze vissute, di sviluppare una capacità comunicativa, di definire i confini corporei del proprio Sé.
Le relazioni di attaccamento si stabiliscono verso più persone oltre alla madre in una gerarchia di importanza comprendendo anche il papà o i nonni o altre figure di accudimento significative.
La qualità dell’esperienza definisce la sicurezza dell’attaccamento in base alla sensibilità ed empatia della madre o di chi ha il compito di prendersi cura del piccolo e contribuisce alla creazione di modelli operativi interni che caratterizzano i comportamenti relazionali futuri.
Con la crescita l’attaccamento si modifica: da un investimento iniziale unico ed esclusivo sulla madre comincerà a coinvolgere e ad interessare anche altre figure prima interne e poi esterne alla famiglia, fino a ridursi. Nell’adolescenza prima e poi nell’età adulta la persona avrà maturato la capacità di separazione dalle prime figure di accudimento e sperimenterà la bellezza di legarsi a nuove figure di attaccamento come un amico o una fidanzata.
Le Fasi dell’attaccamento
J. Bowlby riteneva che l’attaccamento si sviluppasse attraverso alcune fasi, e che potesse essere di tipo “sicuro” o “insicuro”. Un attaccamento di tipo sicuro si ha se il bambino sente di avere dalla figura di riferimento protezione, senso di sicurezza, affetto; in un attaccamento di tipo insicuro invece il bambino riversa sulla figura di riferimento comportamenti e sentimenti come instabilità, prudenza, eccessiva dipendenza, paura dell’abbandono.
Si identificano quattro fasi attraverso le quali si sviluppa il legame di attaccamento:
dalla nascita fino alle otto-dodici settimane: il neonato non è in grado di discriminare le persone che lo circondano anche se può riuscire a riconoscere, attraverso l’odore e la voce, la propria madre. Superate le dodici settimane il piccolo comincia a dare maggiori risposte agli stimoli sociali. In un secondo momento il bambino, pur mantenendo comportamenti generalmente cordiali con chi lo circonda, metterà in atto modi di fare sempre più selettivi, soprattutto con la figura materna;
sesto / settimo mese, il neonato diviene maggiormente discriminante nei confronti della persone con le quali entra in contatto;
dal nono mese l’attaccamento con la figura di accudimento si fa stabile e visibile: il neonato richiama l’attenzione della figura di riferimento, la saluta, la usa come base per esplorare l’ambiente, ricerca in lei protezione in particolare se si trova a cospetto di un estraneo;
il comportamento di attaccamento è stabile e profondo fino a circa tre anni, età in cui il bambino acquisisce la capacità di mantenere tranquillità e sicurezza in un ambiente sconosciuto; deve però essere in compagnia di figure di riferimento secondarie, ed avere la certezza che la mamma faccia faccia presto ritorno.
I tipi di attaccamento
stile “sicuro”: il bambino esplora l’ambiente e gioca sotto lo sguardo vigile della madre con cui interagisce; quando la madre esce e rimane con lo sconosciuto il bambino è visibilmente turbato. Al ritorno della madre si tranquillizza e si lascia consolare;
stile “insicuro-evitante”: il bambino esplora l’ambiente ignorando la madre, è indifferente alla sua uscita e non si lascia avvicinare al suo ritorno.
stile “insicuro-ambivalente”: il bambino ha comportamenti contraddittori nei confronti della madre, a tratti la ignora, a tratti cerca il contatto. Quando la madre se ne va e poi ritorna risulta inconsolabile.
stile “disorganizzato”: il bambino mette in atto dei comportamenti stereotipici, ed è sorpreso/stupefatto quando la madre si allontana.
Attraverso una serie di sperimentazioni (strange situation , M. Ainsworth e J. Bowlby) si è potuto notare come il comportamento di attaccamento, osservato tra la madre e il suo bambino, oltre a fornire protezione al piccolo, serviva a costituire una “base sicura” a cui il bambino potesse ritornare nelle fasi di esplorazione dell’ambiente circostante. Questa “base sicura” permette così di promuovere nel bambino un senso di fiducia in se stesso, favorendone progressivamente l’autonomia.
E’ importante che il legame di attaccamento si sviluppi in maniera adeguata in quanto da esso dipende un buon sviluppo della persona. La qualità della precoce esperienza con la figura di attaccamento caratterizzerà poi tutte le successive relazioni divenendo una aspetto della personalità dell’individuo e un modello relazionale per i rapporti futuri.
Bibliografia di riferimento
John Bowlby, Attaccamento e perdita 1, Bollati Boringhieri, Torino 1999
John Bowlby, Attaccamento e perdita 2, Bollati Boringhieri, Torino 2000
Mary D. Ainsworth, Modelli di attaccamento e sviluppo della personalità, Raffaello Cortina, Milano 2006
Chi sono e cosa vivono i Bambini con DSA?
I dati epidemiologici attuali riportano che circa il 3-6% della popolazione scolastica presenta significative difficoltà nell’acquisizione e nell’uso di lettura, scrittura e calcolo, si parla di circa un alunno per classe. Il disturbo non è direttamente attribuibile ad alterazioni neurologiche o ad anomalie di meccanismi fisiologici , deficit sensoriali , a ritardo mentale o a fattori ambientali.
La diagnosi di disturbo dell’apprendimento della letto-scrittura può essere fatta al secondo anno di scuola elementare, quando si ritengono ormai acquisite le competenze basiche e formali necessarie per questi apprendimenti; mentre per le abilità logico-matematiche si attende la terza elementare. In un’altissima percentuale di casi, un disturbo della letto-scrittura si associa ad uno riguardante le abilità logico-matematiche.
Nella maggior parte dei bambini, inoltre, un disturbo specifico dell’apprendimento sfocia in anomalie nelle relazioni interpersonali e disturbi emotivi e comportamentali : Il problema non è semplice e ha una lunga evoluzione, modificandosi con il passare degli anni e del ciclo scolastico. In ogni fase l’atteggiamento dei docenti, dei compagni di classe e della famiglia hanno un grande peso nel determinare evoluzioni positive o negative del vissuto psicologico di questi bambini.
Il bambino può vivere un sentimento di frustrazione, dovuto alla sua incapacità di soddisfare sempre le richieste e le aspettative dei genitori e/o degli insegnanti. Anche l’ansia è un altro vissuto psicologico del bambino con DSA, che porta ad evitare, molto spesso, esercizi e compiti ritenuti difficili. Un genitore o un’insegnante può, invece, interpretare questo comportamento come svogliatezza o pigrizia, sottovalutando l’aspetto emotivo del problema e assumendo un atteggiamento “giudicante”, che di certo non stimola il bambino a migliorarsi. Se queste emozioni non vengono ascoltate, molto spesso, possono trasformarsi in rabbia: rabbia contro i genitori, gli insegnanti, la scuola; e in vissuti depressivi: tristezza, mancanza di fiducia in sé, disistima, sentimenti auto-distruttivi, senso di non valere niente, isolamento dai coetanei, solitudine, ma anche comportamenti provocatori verso la scuola e i coetanei, proprio per mascherare il sentimento di dolore. Inoltre, non sono del tutto da sottovalutare le relazioni e l’integrazione con la classe, fondamentali per la stima di sé: il bambino, infatti, può percepire la sua “inferiorità” rispetto agli altri compagni, può sentirsi inadeguato, incompetente rispetto al livello di apprendimento della classe e quindi può mettere in atto una serie di comportamenti, che come abbiamo visto, sono deleteri per la sua crescita affettiva e cognitiva. Questi vissuti rischiano di strutturare una personalità condizionata dalla bassa autostima che avrà ricadute persistenti sul futuro personale e professionale.
Conclusioni :
Alla luce di tutte le considerazioni riportate, la medicina dell’evidenza sottolinea costantemente l’importanza di un’individuazione diagnostica precoce, accompagnata da un trattamento di recupero altrettanto immediato, in modo che vi possa essere un margine di guadagno favorevole e per limitare gli effetti consequenziali al disturbo.
Un lavoro di collaborazione tra famiglia, scuola e operatori sanitari (psicologo, logopedista, neuropsichiatra infantile) favorisce il miglioramento delle condizioni psicologiche del bambino, che si sentirà più sicuro delle sue capacità e vivrà maggiori occasioni di gratificazione e soddisfazione, dovuti alla consapevolezza di progredire nel percorso scolastico e di acquisire, via, via, maggiori competenze nella lettura, nella scrittura, nel calcolo, nella logica, e nella comprensione del testo.